giovedì 29 ottobre 2009

Paolo Parisi

Paolo Parisi, “Coltrane”, Black Velvet, pp. 128, euro 13
Non era facile l'impresa per Paolo Parisi, poliziano, classe 1980, specie per gli obiettivi che s'era preposto. Da un lato, seguendo la biografia scritta da Lewis Porter, tracciare un percorso lungo la vita del grande John Coltrane. Dall'altro, cercare attraverso il fumetto di evocarne la musica. Divisa in quattro capitoli (sulla falsariga di “A Love Supreme”, il più celebre album del sassofonista), la storia non segue un percorso lineare, bensì procede avanti e indietro, senza negarsi sussulti e scatti improvvisi, per raccontare l'infanzia, il razzismo, la spiritualità, i colleghi, le donne. Bianco, nero e grigio i colori della tavolozza per un tratto scarno ed essenziale. Non una lettura facile, ma di quelle che impongono vari passaggi per la piena soddisfazione.
Guido Siliotto

Les Tueurs De La Lune De Miel

Les Tueurs De La Lune De Miel, “Special Manubre”, Crammed Discs
Preziosa ristampa arriva dagli archivi della Crammed Discs, distribuita in Italia dalla toscana Materiali Sonori. Belgio, 1977. Una congrega di agitatori che si fa chiamare Les Tueurs De La Lune De Miel infiamma le notti della capitale, con una miscela di sonorità rubate qua e là, tra canzone d'autore, free-jazz, punk, avant-rock. Il tutto frullato con una sensibilità sopra le righe, capace di destabilizzare e dal piglio iconoclasta, sguaiata e creativa. Qualche anno dopo, Yvon Vromman, J.F Jones Jacob e Gérald Fenerberg incontreranno Vincent Kenis e Marc Hollander, nucleo degli Aksak Maboul, e la cantante Véronique Vincent per dar vita a una nuova incarnazione della band, realizzando un album omonimo (ma col titolo in inglese: “The Honeymoon Killers”) considerato una delle più importanti uscite del rock europeo di sempre. Ma è in questo esordio, “Special Manubre”, pubblicato per la prima volta su cd, che possiamo trovare davvero e senza filtri tutta la carica incontrollata e incontrollabile di una band che cambiava formazione di continuo, arruolando tra l'altro un vasto campionario di non musicisti.
Guido Siliotto

Kiddycar

Kiddycar, “Sunlit Silence”, RaiTrade
Gli aretini Kiddycar già li avevamo avvistati tempo addietro, quando con un esordio acerbo (“Forget About”), ma assai intrigante, e una proficua collaborazione con Christian Rainer (“How This Word Resounds”), si dimostrarono capaci di grandi cose, ma, soprattutto, non nascondevano l'ambizione di crescere ancora di più, mostrandone peraltro tutte le potenzialità. Eccoli con un nuovo cd tentare di evolversi rispetto alle precedenti prove. Per farlo, dopo essersi lasciati alle spalle, pur senza rinnegarlo del tutto, uno stile che, per molti versi, riecheggiava il cosiddetto glitch-pop, la band ha ormai optato per dare maggiore consistenza ad altre delle principali influenze che da sempre la animano, con una certa predilezione per un pop d'autore malinconico. Attorno alla voce di Valentina Cidda, gli arrangiamenti creano un'atmosfera da sogno, ipnotica e coinvolgente. Se sapranno superare una certa ripetitività e squarciare la patina di eccessiva raffinatezza che pervade il tutto, il prossimo album potrà essere quello della definitiva consacrazione.
Guido Siliotto

The Zen Circus

The Zen Circus - intervista ad Andrea Appino
“Andate tutti affanculo” (Infecta / Unhip / La Tempesta) è l'ultimo disco del trio pisano, il più maturo e, in una parola, il più bello di una carriera sempre in ascesa. Un cd che, a poco più di un mese dall'uscita, sta ottenendo ottimi riscontri, sia di critica che di pubblico. La band è riuscita a realizzare il suo disco più personale da un punto di vista musicale, ma ciò che colpisce sono le liriche, tutte in italiano, una scelta inedita, che manifesta la necessità di parlare a questo paese. due chiacchiere con Andrea Appino, voce e chitarra, autore delle canzoni.
Tutti affanculo. Ma tutti chi?
Il titolo dell'album è chiaramente una provocazione e fin dal momento della sua genesi ci siamo preparati ad aspre critiche. Ma ci fa piacere che sia il pubblico sia gli addetti ai lavori hanno capito quasi subito di cosa si tratta. “Andate Tutti Affanculo” è l'offesa più generalista, qualunquista e vaga che si possa dire oggi, eppure è la più usata quando ci si sente soli, impotenti e non si riconoscono più gli amici dai nemici. Nel disco ci sono dieci brani che sono dieci ritratti del qualunquismo che vige oggi sotto il falso nome dell'uomo qualcuno, citando Caparezza. Noi siamo solo i medium, a raccontarsi sono questi personaggi che sono fotografati senza alcuna morale e quindi volgari e violenti come l'Italia di oggi. Ma anche patetici e poetici, come piaceva a Pasolini. E non solo l'italia della provincia, ma anche e sopratutto l'italia delle più alte cariche istituzionali in confronto alle quali gli Zen Circus e la loro volgarità appaiono come dei chierichetti alle prime armi.
Il passaggio all'italiano, dopo aver fatto un cd in 4 lingue diverse, si legge come la necessità di parlare a questo paese. Il contenuto dei testi, del resto, testimonia un j'accuse a 360 gradi. Il momento è grave, però non sono in tanti quelli che hanno le palle per affrontare la realtà, in politica, così come anche nell'arte. Che ne pensi?
Da una parte pensiamo anche noi che ci sia troppa poca sostanza, dall'altra capisco chi crede fermamente che la musica debba stare lontana dalla “politica” o in generale dal prendere posizioni sulla società in cui nasce e rimanere puro entertainment; pensa al rock'n'roll ed il country americano più atavico che è nato reazionario, fondamentalmente razzista e pro-estabilshment. Ma è poi diventato l'arma preferita di chi quel mondo lo voleva contestare e cambiare. Infatti la gente ti cambia intorno, l'aria si fa pesante, il divertimento puro lascia l'amaro in bocca e c'è bisogno di dire le cose come stanno, o almeno, di fotografare - come dicevo sopra - quello che abbiamo intorno a noi e le reazioni degli altri rispetto al vivere oggi. D'altronde è sempre stato così nell'arte: vive per sempre solo quando definisce appieno l'epoca in cui è nata e le sue contraddizioni, ma senza restarne troppo invischiata.
Sotto accusa c'è anche la generazione di chi ha superato i trent'anni, un po' vittime un po' carnefici di se stessi.
Assolutamente si, anche perchè sotto accusa ci siamo noi in primis. Ed anche perchè sono i miei coetanei, quindi una delle mie principali fonti d'ispirazione per le liriche. E' una generazione partita col botto nei '90, ma la realtà è che siamo cresciuti come individui negli anni '80 e il berlusconesimo ci ha imboccati, coccolati e viziati ben prima di diventare quello che è oggi. Odio guardare indietro, è il mio più grande cruccio: i miei coetanei guardano indietro con nostalgia a momenti della vita in cui le responsabilità non erano così pesanti. Ma come?! Io trovo che sia proprio la responsabilità a fare della vita una cosa che vale la pena: mi assumo tutte le responsabilità, non voglio tornare un pulcino imbevuto di sbornie ormonali, io sono un uomo e la libertà più grande sta nel decidere da solo quello che sono! La nostalgia porta a brutte cose, in primis a ripetere gli errori del passato, ma il passato dev'essere invece un grande lago di conoscenza dal quale scegliere con attenzione cosa pescare e cosa no.
“Canzone di Natale”, il pezzo che chiude il cd, mi ha fatto pensare al vostro più grande pregio, ma anche al più grande difetto (?). Nel momento in cui poteva diventare un brano serio, poetico, amaro, disperato, ci mettete dentro un siparietto comico, una chiacchierata con lo spacciatore, che stempera la tensione e si presta a farsi male interpretare come un ammiccamento. Ecco, dite e fate cose serie, ma non vi prendete sul serio? Siete coscienti del continuo fraintendimento a cui vi esponete?
Il brano è stato scritto nel 2001 da me ed Aldo Acerbi, un nostro grande amico e collaboratore al tempo. Era già stato registrato una volta ed il finale è sempre stato così, lo abbiamo riproposto esattamente come era nato, come ci piaceva. Capisco cosa intendi, mi viene in mente il documentario su Bobo Rondelli di Virzì che ho visto ultimamente dove si parla proprio di questo: questi toscani la cui ironia, strafottenza ed il prendersi troppo poco sul serio taglia le gambe artisticamente nel resto del paese. Vero, verissimo, ma non per noi. Noi crediamo di essere completamente fuori da questo meccanismo, la Toscana non è nemmeno la regione dove andiamo meglio ed è fra quelle dove suoniamo di meno. L'ironia tipica delle nostre parti è però fondamentale nella poetica degli Zen e quella telefonata viene ripetuta ad ogni concerto come un momento liberatorio dopo un'ora di tensione musicale. Stessa cosa nel disco, che viaggia su binari serissimi e decisamente incazzati fino a frangersi in una risata – amarissima - quando Abdul ci ricorda che è mussulmano e che non gliene frega niente del Natale. E poi lasciami dire che essere fraintesi, per un gruppo che intitola il proprio disco più importante “Andate Tutti Affanculo” non deve essere un problema troppo grande.
Del resto siete rimasti indipendenti pur con evidenti possibilità di fare scelte diverse, come smussare certe asperità e fare carriera. Anche qui: una scelta o una necessità?
Guarda, paradossalmente con un disco con questo titolo abbiamo avuto in tre settimane il più alto riscontro di vendite nei negozi mai avuto nella nostra carriera. Su Internet il disco gira che è una meraviglia, “Il Mucchio selvaggio” ci ha fatto onore della copertina, le radio commerciali passano brani nostri come non avevano mai fatto in passato e le prime date del tour sono piene di ragazzi di tutte le età che cantano a squarciagola con noi. Quindi devo pensare che non avere mai smussato certe asperità, aver fatto sempre scelte indipendenti ed essere rimasti cocciutamente rudi nel rapporto con la nostra musica ci abbia fatto solo bene. Non riesco ad immaginarmi gli Zen diversamente da questo: un furgone diesel che piano piano arriva alla meta dove molte spider non arriveranno mai.
Dopo Brian Ritchie (comunque presente sul cd), la vostra più recente collaborazione è con Nada.
Ha cantato nel nostro disco “Vuoti a Perdere”, ma la cosa si sta già evolvendo: sta registrando il suo nuovo disco con il nostro produttore a Ferrara, Karim ha già fatto alcune parti di batteria, mentre io lavorerò a fine mese un po' di chitarre insieme a Giorgio Canali.
Da un punto di vista musicale, ho trovato il disco come la cosa più matura fatta da voi finora: i riferimenti ci sono sempre (Violente Femmes, Pixies, ecc...), ci mancherebbe, ma ora avete trovato una forma più personale. Sei d'accordo?
Decisamente, ma credo anche che cantare in italiano per tutto un album abbia aiutato tutti a comprendere meglio la musica del circo zen. Addirittura c'è qualche folle che parla di noi come di un genere musicale a se stante. Io credo che lavorare sulla strada lunga come abbiamo fatto noi, farsi anni ed anni di gavetta di quella mozzafiato, evangelizzare il paese con tour da Testimoni di Geova, sia il modo migliore per guadagnare in personalità.
Guido Siliotto

lunedì 19 ottobre 2009

Line Hoven

Line Hoven, “L’amore guarda da un’altra parte”, Coconino Press, pp. 96 b/n, euro 15
Il tratto è bianco su sfondo nero per questa graphic novel di Line Hoven, illustratrice all'esordio nel fumetto, figlia di un’americana e di un tedesco, che racconta la storia della sua famiglia, con la Seconda guerra mondiale sullo sfondo e i pregiudizi che la Germania hitleriana ha generato negli americani e non solo. Una storia raccontata con taglio delicato, a passo lento, due percorsi paralleli che si intrecciano solo alla fine, quando i genitori di Line si incontreranno e sarà difficile la scelta per un luogo dove vivere. Due generazioni a confronto, l'una che non riesce a dimenticare gli orrori del nazismo, l'altra che guarda avanti, verso un futuro ancora incerto. Un'opera di grande intensità, premio Icom come miglior fumetto indipendente del 2008.
Guido Siliotto

giovedì 15 ottobre 2009

Bad Sector

Bad Sector, “CMASA”, Loki / Power and Steel
Il più recente lavoro discografico pubblicato da Bad Sector, alias Massimo Magrini, è senz'altro atipico rispetto alla sua produzione solita, anche perché è nato da esigenze ben precise, in particolare come colonna sonora dell'installazione “M3M – Marina terzo millennio” curata da Luca Serasini nel 2005, incentrata sul contesto urbano alla foce dell'Arno a Marina di Pisa. Il cd in questione è dunque una raccolta, rimaneggiata ed estesa, delle musiche realizzate per quell'opera e ne è venuto fuori un vero è proprio concept-album attorno alla ex-fabbrica CMASA/Motofides, che stava nel punto in cui il fiume finisce nel mare. L'obiettivo allora è diventato quello di fissare una volta per tutte l'atmosfera di quei luoghi prima dell'inizio dei lavori per il nuovo porto. Le sagome dei retoni diventano i protagonisti di un luogo fisico, ma anche mentale, inevitabilmente carico di nostalgia. Utilizzando il consueto armamentario elettronico assieme a suoni della natura (l'acqua) e strumenti come pianoforte e chitarra acustica, il musicista toscano è riuscito a realizzare così un'opera struggente e davvero affascinante.
Guido Siliotto
INTERVISTA
Massimo Magrini, musicista lucchese d'origine, ma pisano d'adozione, è da tanti anni impegnato in una serie di progetti che lo hanno reso figura di culto della scena ambient-industrial europea.
Puoi tracciare una breve biografia, segnando i punti salienti della tua attività artistica?
A quattordici anni ho iniziato a trafficare con i primi circuiti elettronici “suonanti” autocostruiti, con i quali realizzavo in casa cassette che poi distribuivo agli amici esterrefatti. Poi gli studi tecnici e l’università. Parallelamente a questa iniziai a studiare musica elettronica “seria”, anche se ero coinvolto molto attivamente nella locale scena underground. Erano gli anni della new wave e della prima industrial music. Finita l’università, ho iniziato la collaborazione con il Reparto di Informatica Musicale del CNR, quello dove negli anni settanta Pietro Grossi faceva la sue pionieristiche esperienze musicali coi computer. Tuttavia il virus industrial e post-punk viveva ancora dentro di me e ben presto le competenze tecnico-scientifiche dell’esperienza CNR si sono riversate nel progetto Bad Sector, a quel punto una sorta di fusione fra l’istinto e la ragione. Nel '95 il primo cd, “Ampos”, che ebbe subito un grande riscontro. Da lì in poi, tanti altri dischi e una impegnativa attività live.
In cosa consiste la tua attività al CNR e in che modo questa ha influito sulla tua musica?
In sostanza mi occupo dello sviluppo di applicazioni software per la sintesi ed il trattamento dei segnali musicali e non, oltre che della progettazione di speciali interfacce gestuali per il controllo di queste applicazioni. Si tratta di sistemi che si possono usare per performance musicali e multimediali, ma soprattutto per applicazioni mediche, quali la riabilitazione di soggetti con deficit psichici o psico-motori.
Nel tuo suono si sente l'influenza di una ricerca continua. C'è il rischio che la forma prevalga sulla sostanza?
Beh, nell’arte contemporanea molto spesso il veicolo estetico è la forma e non il contenuto. Capisco però quello che vuoi dire, ma nel mio caso non c’è questo pericolo: la componente emozionale è assolutamente predominante. Poi, in ogni caso, anche essendo a volte estrema, la mia è pur sempre un'operazione “pop”.
È difficile trovare un equilibrio tra uomo e macchina?
E' un problema che non esiste. La macchina fa solo ed esclusivamente quello per cui è istruita, anche gli eventuali margini di indeterminazione nel suo comportamento sono stimabili e classificabili. Se produce cose esteticamente discutibili, dipende solo dall’essere umano che l’ha programmata.
Nei tuoi concerti c'è margine per l'improvvisazione?
Come dicevo prima, cerco sempre di usare, seppure con moderazione, semplici dispositivi autocostruiti connessi al computer, per controllare il suono mentre viene prodotto. Ciò da un lato serve a rendere il tutto visivamente più spettacolare, dall'altro aiuta a sottolineare che la cosa sta avvenendo in quel momento e non è tutto registrato. Ovviamente, essendo nel mio caso il suono assai complesso, è impossibile rigenerarlo completamente dal vivo, quindi uso moltissime basi. Tuttavia, con i dispositivi di cui sopra, oltre che con altri più tradizionali, come piccoli controller Midi o semplici mixer, altero ed arricchisco il suono in modo completamente improvvisato, muovendomi quindi in uno spettro di variazioni espressive di ampiezza paragonabile a quella che può avere uno strumentista che legge una partitura.
Progetti presenti e futuri?
Per quanto riguarda Bad Sector, a parte "CMASA", qualche tempo fa è uscita una compilation di rarità ed inediti in due volumi, “Storage Disk”, per l'etichetta moscovita Waystyx. Negli ultimi tempi, però, mi sono concentrato soprattutto su Olhon, un progetto idato assieme a Zairo - già attivo con gli Where. Creiamo musica d’ambiente utilizzando unicamente rielaborazioni di registrazioni che facciamo personalmente in luoghi spesso estremi: laghi vulcanici, cavità sotterranee o profondità sottomarine, come per il recente “Underwater Passage”. Per compiere queste registrazioni dobbiamo spesso costruire speciali sonde in grado di resistere a condizioni quasi proibitive. I tre lavori finora prodotti uniscono il forte connotato concettuale con un fascino molto particolare: è un suono elettronico, ma quasi “organico”.
Guido Siliotto

lunedì 12 ottobre 2009

Tony Face Big Roll Band

Tony Face Big Roll Band, “Old Soul Rebel”, Area Pirata
Torna Tony Face, alias Antonio Bacciocchi, che dei Not Moving fu batterista: eccolo con un cd nuovo di zecca, pubblicato dalla pisana Area Pirata, con cui celebra il proprio orgoglio mod con la complicità di alcuni nomi di lusso della scena d'oltremanica. Sul piatto, cover di gemme più o meno nascoste del soul e del punk, tra chitarre e hammond suonati con passione e convinzione, un repertorio che va dai Beatles a Gil Scott Heron, da Ray Charles a Sly Stone, fino agli Husker Du. Bello ed intenso.
Guido Siliotto

Not Moving

Not Moving, “Black'n'wild / Sinnermen”, Spit/Fire
Primi anni ottanta, un nome sta incendiando il nuovo rock italiano: è quello dei Not Moving, che coi loro concerti impazzano sue giù per la penisola. Vista la passione del pubblico, è chiaro che ci vuole un disco, ma è meglio cominciare con un ep, poi si vedrà. Nell'85 esce “Black'n'wild” ed è subito punk'n'roll di quello tosto, cinque tracce grezze e sfrontate al punto giusto. Passa poco più di un anno ed arriva finalmente il primo album: si chiama “Sinnermen” una delle migliori uscite tricolore di quel decennio. Mai prima d'ora su cd, questo pezzo di storia viene riproposto dalla stessa etichetta di allora, la fiorentina Spittle, nel mixaggio originario, il tutto arricchito da quattro outtakes.
Guido Siliotto

Pentti Otsamo

Pentti Otsamo, “Homunculus”, Black velvet, pp. 64, b/n, euro 9 Il finlandese Pentti Otsamo, classe 1967, si è da tempo imposto sulla scena scandinava grazie a uno stile semplice, ma particolarmente carico di contenuti. Lo dimostra anche il recente “Homunculus”, pubblicato in Italia da Black Velvet, una sessantina di pagine per raccontare una storia che trae spunto dall'episodio di una gravidanza inattesa. È l'occasione per indagare sugli effetti nel cuore e nella mente di lei, ma anche di lui. Le gioie, i problemi, le paure, gli incubi, i tradimenti. Lei, artista, che si immedesima nel ruolo di madre, lui, autore di videogiochi, che cerca di sfuggire, senza troppa convinzione, alle responsabilità. I ruoli sono forse un po' stereotipati, ma Otsamo s'era prefissato un compito difficile e lo ha svolto con bravura, pudore ed onestà.
Guido Siliotto

Great Complotto

AA. VV., “The Great Complotto”, Shake, pp. 68 +cd, euro 17
Italia, fine anni settanta. Mentre fuori esplode il punk, ci pensa una cittadina del nord-est a regalare una delle più brillanti interpretazioni di quel fenomeno. A Pordenone, i ragazzi si vestono in modo strano, cominciano a ritrovarsi, a prendere in mano gli strumenti e a suonare assieme. Nasce una vera e propria scena: allegra, rivoluzionaria, brillante. Tra verità e leggenda, il libro curato da Shake – che martedi sarà presentato alle 18 presso la libreria Mel Bookstore a Firenze - ripercorre in maniera frammentaria ma stuzzicante le tappe di quel breve momento: il celebre disco di HitlerSS e Tampax e il loro concerto “di cartone” a Londra, lo stato di Naon, la Tequila e molto altro. Il cd allegato è la ristampa della seminale compilation uscita all'epoca – più un video e la fanzine in pdf - ed è assolutamente da non perdere.
Guido Siliotto

Passe Montagne

Passe Montagne, “Oh My Satan”, Africantape
Math-rock? Sì, grazie... anzi no. Insomma, il nuovo disco dei Passe Montagne, in una ipotetica catalogazione, finirebbe facilmente nella cartellina “noise” o, appunto, “math-rock”. Eppure, ciò che lo caratterizza, è la voglia di svincolarsi da schemi troppo rigidi, andare avanti, ma guardando indietro. Infatti, il trio (Gilles Montaufray e Samuel Cochetel alle chitarre e Julien Fernandez alla batteria), per dare un seguito all'esordio di tre anni fa (“Long Play”), decide di fare riferimento nientemeno che all'hard-rock degli anni settanta. Scelta consapevole, ovvio, ma senz'altro dettata da insane passioni e, perché no, dalla stanchezza di trovarsi per forza inseriti in un rigido contesto. Tutte cose che fanno bene alla musica e infatti questo “Oh My Satan” è disco ottimo, dove grinta e qualità rendono al meglio, supportati da tante buone idee. Se poi aggiungiamo che i tre vivono sparsi per il mondo (Italia, Francia e Colombia) e s'incontrano di rado, se le occupazioni di ciascuno lo permettono, ma quando suonano assieme ottengono risultati di questo livello, c'è da confidare nelle compagnie aeree. Cento di questi dischi.
Guido Siliotto

Mattia Coletti

Mattia Coletti, “Pantagruele”, Wallace / Towntone
Mattia Coletti è ragazzo di grande talento e lo dimostra anche con questo nuovo cd, pubblicato da Wallace Records in combutta con l'etichetta giapponese Towntone. È il seguito del già ottimo “Zeno”, ma stavolta Coletti dimostra di avere affinato la tecnica e, perchè no, di aver fatto maturare meglio le proprie idee. Chitarrista abile e raffinato, propone in questo mini album (6 tracce per una ventina di minuti di musica) un campionario delle sue qualità e, appunto, una bella dimostrazione di quale sia il suo approccio alla composizione. Dall'introduzione delicata con “L'angolo rosso della civetta”, che omaggia il maestro – di tanti – John Fahey, arriva a elaborare vere e proprie canzoni dove, accanto alla sei corde, fanno capolino gli altri strumenti, piano, clarinetto, batteria, discreti nell'assecondare le docili tessiture di Mattia, che, senza perdersi neppure in qualche momento più sperimentale (il rincorrersi di chitarra e percussioni su “The Bed Is Over The Rainbow”), ha realizzato un disco che, pur nella sua brevità, rappresenta un tassello importante per una ancora giovane, ma assai promettente vicenda artistica.
Guido Siliotto

giovedì 8 ottobre 2009

Julie Doucet

Julie Doucet, “My New York Diary”, Purple Press, pp. 112, b/n, euro 13,90
Non aspettatevi una panoramica della scintillante Grande Mela anni novanta. La New York di Julie Doucet è fatta di interni: stanze fatiscenti, letti sfatti, disordine. E poi droghe, epilessia, insicurezza cronica. E, infine, un amore impossibile: soffocante e opprimente. Con questi ingredienti ne poteva venire fuori un drammone maudit e invece l'autrice canadese racconta semplicemente - in bianco e nero (più nero che bianco, per la verità) - tutta la verità, solo qualche omissione ogni tanto (come confessa nell'intervista alla fine del volume). Nelle pagine del suo diario, con acuta ironia e un pizzico di sarcasmo, le quotidiane, piccole difficoltà di una ragazza particolarmente sensibile. Dopo il successo di questo lavoro, finalmente disponibile in Italia grazie a Purple Press, la Doucet ha ben presto deciso di abbandonare il fumetto e dedicarsi all'arte contemporanea.
Guido Siliotto

Pissed Jeans

Pissed Jeans, “King Of Jeans”, Sub Pop
Arrivano alla terza prova, assai attesa, i Pissed Jeans. Anche stavolta è la leggendaria Sub Pop, l’etichetta-chiave del grunge, a dare fiducia a questi quattro ragazzoni della Pennsylvania, sempre fieri del nome assurdo che hanno scelto per la propria band. “King Of Jeans” prosegue sulla rotta che già li fece apprezzare, eccome, per il precedente “Hope For Men”, che proponeva, con un occhio al passato, una insana miscela di hard-rock, punk e noise. Non è possibile neppure per queste nuove tracce segnalare grosse novità: ancora ben in evidenza la voce sguaiata di Matt Korvette, mentre la sezione ritmica si conferma granitica e implacabile. Al solito, la chitarra genera una discreta quantità di riff sopraffini, abrasivi al punto giusto. Insomma, ciò che ancora una volta colpisce è la capacità di scrivere grandi canzoni e la facilità con cui queste riescano a farsi spazio pur nel deflagrante pandemonio generato dal combo.
Guido Siliotto

Daniele Brusaschetto

Daniele Brusaschetto, “Blasé”, Bosco
Si addice eccome il titolo di questo nuovo cd alla produzione artistica di Daniele Brusaschetto. Blasé, disincantato, indifferente: aggettivi che rappresentano il suo percorso artistico, per nulla incline alla ribalta se non per quanti siano davvero propensi a porgere attenzione a questo tesoro nascosto del rock italiano, uno degli autori più sensibili e sinceri. Ma è una condizione di invisibilità che sembra inevitabile, peraltro coltivata da un'indole che non ama esibizionismi, nonostante una carriera ormai lunga e l'incessante attività live in Italia e all'estero. Ecco che, allora, il suo più recente cd – pubblicato per la sua etichetta personale, in una confezione fatta a mano, copertina cartonata e un capello incollato sopra - esce in sole 78 copie. È il “sunto di una decade”: due canzoni nuove e altre sette riviste secondo la nuova sensibilità che caratterizza la produzione più recente di Daniele, acustica ed intima. Un disco bellissimo.
Guido Siliotto