mercoledì 7 aprile 2010

Alberto Schiavone

La Mischia - Intervista ad Alberto Schiavone
Un racconto ambientato nel mondo del calcio giovanile, protagonista un ragazzino di talento che vuole sfondare a tutti i costi, ma, più di lui, è il padre che vorrebbe finalmente svoltare. Per farlo, ogni mezzo è lecito. Intorno, una galleria di personaggi emblematici. “La mischia” è il romanzo d'esordio di Alberto Schiavone, torinese classe 1980, pubblicato dalla casa editrice fiorentina Cult (pp. 150, euro 9,50). Ed è un biglietto da visita a dir poco convincente. Schiavone opta per uno stile secco, essenziale, senza tanti fronzoli. Pagina dopo pagina mette assieme le tessere del mosaico, con qualche colpo a sorpresa, qualche gustosa esagerazione e un pizzico di amara ironia, per un ritratto arguto ed efficace dell'Italia di oggi: arrivismo, voglia di apparire, violenza, razzismo, fame di denaro, ignoranza.
Perché una ambientazione sportiva per questa analisi a tutto tondo dell'attuale società italiana?
Sono partito dal mondo del calcio, in particolar modo quello giovanile, perché emblematico di un modo di intendere la vita, il futuro, la realizzazione personale al giorno d’oggi. L'attuale crisi della politica è solo l’ultima esalazione dell’infarto generale degli anni ’80 e il fatto che tanti tic da curva, e tanta grettezza da stadio, abbiano trovato applicazione e concime in Parlamento, così come nei cosiddetti “salotti”, ne è la testimonianza. Non a caso persino i partiti, o presunti tali, hanno attinto per i loro nomi agli slogan dei tifosi. Il livellamento verso il basso della società italiana è generale. Io ho rischiato, da torinese e interista, di prendere botte durante un Juve – Inter di qualche anno fa. Ed ero con due miei amici juventini. In tribuna. Stessa cosa qualche mese fa a Bologna, dove vivo da quasi dieci anni. I benestanti bolognesi erano lì a dare del negro a Balotelli, aspettando solo che qualche interista reagisse per far scattare la scintilla. Il “caso” Balotelli è altrettanto significativo, perché si porta dietro il non-detto che un nero, quindi un non-italiano, non può permettersi di essere anche presuntuoso, depresso o baldanzoso. Deve fare gol. E lavorare con la testa china.
La situazione non è rosea. Che idea ti sei fatto del modo in cui l'ambiente culturale italiano affronta la realtà che stiamo vivendo?
In Italia conta più il ginocchio di Totti che un morto sul lavoro. E io, italiano-tipo, voglio in qualunque modo avvicinarmi a Totti, ai suoi soldi, alla sua fidanzata, al suo successo, senza nemmeno pensare al morto sul lavoro. Non lo voglio proprio vedere il morto, né saperne nulla. Così, l’atomizzazione della società ha fatto sì che i due mondi siano lontani anni luce, anche se di fatto non lo sarebbero, essendo Totti un personaggio popolare. Ma il cosiddetto popolo non ha strumenti, voglia o rabbia per accorgersi di questo. Preferisce provare con l’ennesimo gratta e vinci, così magari si svolta. E' fin troppo facile trovare le colpe del mondo culturale e le sue responsabilità in tutto questo. Ripropongo, immeritatamente, una domanda: progresso e sviluppo viaggiano insieme? Al momento, la risposta è quasi scontata.
La storia che racconti nel romanzo non lascia grandi speranze, ma tu ne hai qualcuna?
Sono un individualista. Sono per la crescita personale, per l’autodeterminazione. Attorno vedo sguardi stanchi, senza gioia, spenti, se non cattivi. Ma è nell’emergenza che la pancia e la testa producono cose buone. La testa da sola non basta. Bisogna avere qualcosa che brucia, fosse anche un Fernet. A parte gli scherzi, si deve essere ottimisti, o almeno la mia anagrafe me lo impone. Ciò non vuol dire abbandonarsi al futuro, che tanto qualcosa succederà. Al contrario, significa darsi da fare, tutti i giorni, o almeno scegliere di non fare determinate cose. Sarebbe già qualcosa.
In particolare, il protagonista è tutto sommato un giovane di talento che si trova la strada sbarrata, cosa che capita oggi in Italia a quasi tutti i ragazzi. C'è però anche la componente del piangersi un po' addosso. Tu che idea hai in proposito?
Il protagonista del mio romanzo è un giovane con tutti i difetti di un adulto. E in più ha un padre che non lo aiuta, anzi. Se fossi uno scrittore più maturo avrei dovuto raccontare di come Amedeo sia attorniato da stimoli bolsi un po’ ovunque, scuola compresa, e di come questa mancanza di strumenti lo “costringa” nelle scelte più ovvie, quelle peggiori. Quelle di cui poi ci si può lamentare. Amedeo è come un turista a Venezia. Non avendo curiosità, tempo, soldi, interessi, segue le grandi arterie del pascolo. Basterebbe scostarsi un po'.
Sei appassionato di letteratura e libraio. Hai qualche autore di riferimento?
Un libraio deve conoscere molti libri, seguire le nuove uscite, consigliare, appagare i clienti. Io ho il grosso difetto di amare soprattutto gli autori morti. Forse perché sono arrivato alla lettura verso i sedici-diciassette anni, quindi molto tardi. Ho un debito da pagare con la letteratura. Ma ne sono contento, il mio essere autodidatta mi ha portato in territori poco battuti, o a cui sarei dovuto arrivare dopo un “apprendistato”. Autori di riferimento? Domanda velenosa. Cito solo qualche italiano, tanto per fare il patriottico: Arpino, Bianciardi, Flaiano, Fusco, Manganelli. Ma amo molto anche i fumetti e il cinema: spesso l’immagine è assai più efficace della parola, perché può fare a meno della traduzione. L’immagine evoca. Non mi dispiacerebbe riuscire a regalare le stesse sensazioni di un film dei Dardenne o di Kaurismaki.
Guido Siliotto

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