venerdì 3 aprile 2009

Claudio Sessa, “Le età del jazz. I contemporanei”, Il Saggiatore, pp. 252, € 23
Ha prima di tutto un merito il libro di Claudio Sessa, e qualsiasi jazzofilo dovrà per forza essere d'accordo: è uno di quei rari lavori che incentra la propria attenzione sul jazz contemporaneo, mentre di solito gli studiosi si affannano a ripercorrerne la storia meno recente, per lo più con taglio biografico. L'obiettivo era quello di colmare questo vuoto e ciò lo rende già di per sé un compendio indispensabile. In più, l'autore, tra i più apprezzati critici del settore, lo fa affrontando l'argomento senza perdere di vista la necessità di analizzare i rapporti tra America ed Europa. Davvero ampia la mole dei dischi affrontati pagina dopo pagina, con qualche spunto particolarmente intrigante: il panorama italiano, l'incontro con l'elettronica e l'ipotesi di un jazz postmoderno.
Guido Siliotto
Julie's Haircut, “Our Secret Ceremony”, A Silent Place
Da tempo Julie's Haircut è uno dei nomi più in vista del panorama indie italiano. I vecchi dischi della band, col loro sapore pop venato di sixties, hanno fatto proseliti e lanciato la band come una delle più rappresentative di quel filone che, guardando al passato, sa trovare nuovi spunti anche per il presente. Da qualche tempo, però, il combo ha deciso di cambiare traiettoria. Le prime avvisaglie si sono concretizzate in uno spiccato interesse per la psichedelia (c'era Sonic Boom su “After dark, my sweet”) e per il kraut-rock, come confermò la soddisfacente collaborazione con Damo Suzuki. In altre parole, i ragazzi hanno deciso di sporcarsi le mani e ampliare ancora di più i propri orizzonti. Il passaggio da Homesleep, l'etichetta che li adottò dopo Gamma Pop, alla più sperimentale A Silent Place è il perfetto corollario di questa scelta. “Our Secret Ceremony” è un disco ambizioso: anzi tutto per la mole, un doppio cd con 15 canzoni, alcune molto lunghe, diviso in due parti, “Sermons” e “Liturgy”. L'intro è base di elettronica povera, poi si procede con tante idee buone, furti e improvvisazione organizzata. Eccitante. Il fatto che non tutto sia a fuoco è tutt'altro che un demerito, bensì il segno che questa è una band col coraggio di osare.
Guido Siliotto
Kelli Ali, “Rocking Horse”, One Little Indian
Chi ricorda gli Sneaker Pimps, quelli del primo album del '96, “Becoming X”, pietra miliare del trip-hop britannico? La voce, su quel disco, appartiene a Kelli Dayton, la quale, abbandonata la vecchia band, ha deciso di intraprendere la carriera solista. Dopo due dischi in cui esplorava il pop con un taglio dapprima sognante, poi più grintoso, eccola con un album completamente diverso, che ce la consegna con la solita voce soave, ma alle prese con una forma canzone mutuata dal folk. Sembra un disco d'altri tempi questo “Rocking Horse”, fin dalla copertina. Lo si potrebbe collocare negli anni settanta, quel filone che vedeva in Inghilterra molte voci femminili cimentarsi con delicati arpeggi di chitarra, qualche campanellino, uno xilofono e opportune orchestrazioni. Chi ha seguito i percorsi di Kelli potrebbe restarne sconvolto, ma per gli altri è semplicemente un bel disco. Difficile dire se si tratta di una abile mossa di riciclaggio o, al contrario, di una sincera folgorazione. Tutto sommato, poco importa. Le tredici tracce sono infatti convincenti, si lasciano ascoltare con piacere, sono ben arrangiate e la voce di Kelli non merita altro che apprezzamenti.
Guido Siliotto

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