lunedì 27 aprile 2009

Hey!Tonal

Hey!Tonal, “Hey!Tonal”, Africantape
Un tempo i musicisti si trovavano assieme e facevano una jam session. Oggi, sempre più spesso, si scambiano gli mp3 via Internet. Oppure, come in questo caso, si divertono a registrare ciascuno la propria parte, affinché vengano mixate una sull'altra fino a creare un brano vero e proprio. Se il risultato suona come questo cd, sarebbe assurdo protestare. Dunque, il progetto Hey!Tonal parte da Mitch Cheney e Alan Mills, che, dopo aver creato le basi grazie alle ritmiche del grande Kevin Shea (Storm & Stress, Talibam!), invitano Dave Davison (Maps & Atlases) e Theo Katsaounis (Joan of Arc, ZZZZ’s) a mettere sul piatto le proprie idee, coinvolgendo poi Kenseth Thibideau (Pinback) e Julien Fernandez (Passe Montagne, Chevreuil). Un ultimo tocco in cabina di regia e il gioco è fatto. Il risultato è ottimo, un grande esempio di post-math-rock strumentale basato sul ritmo, la batteria prima di tutto, con gli altri strumenti impegnati ad assecondarne e/o contrastarne le gesta. Chitarre affilate, distorsioni, funambolici equilibrismi, un mucchio di idee, esaltanti alchimie. Ancora un'uscita coi fiocchi (nei negozi a maggio) per la giovane ma promettente etichetta Africantape.
Guido Siliotto

Tom Moto

Tom Moto, “Junk”, Lizard
Sono in tre, vengono da Pisa e giungono all'esordio discografico dopo un bel po' di gavetta live. Marco Calcaprina (tromba e trombone), Giulio Tosi (basso) e Juri Massa (batteria) riscuotono fiducia presso Lizard Records, che ne licenzia questo primo cd, “Junk”. Il loro immaginario ruota attorno alla figura di Charles Bukowski e del suo “Post Office”: da lì prendono il nome e da lì rubano qualche pagina, qui recitata dall'amico Alex Zobel (alla cui memoria dedicano il disco). E la musica? Un'insana ed eccitante miscela di funk, jazz e noise. Tutto qui. Suonata bene, benissimo, con l'aiuto di qualche ospite, come Matteo Anelli dei Gatti Mezzi (contrabbasso in un paio di tracce). Facile, se non inevitabile, che alla mente tornino gli Zu, senz'altro padri putativi del trio toscano, se non altro per la struttura stessa dell'ensemble e per la scelta di calcare i medesimi territori sonori. Tutt'altro che cloni, però, i Tom Moto sono fin da ora una stella luminosa dell'underground italico. Siamo qui per seguirne le gesta. Per un assaggio della loro musica o (perché no?) contattarli per acquistare il cd, andare su www.myspace.com/tommotoband.
Guido Siliotto

martedì 14 aprile 2009

P. Fariselli, “Storie elettriche”, Auditorium, pp. 192, € 12,50
Non un'autobiografia e neppure una storia degli Area, a trent'anni dalla scomparsa di Demetrio Stratos. Tutt'altro. “Storie elettriche” è una raccolta di appunti, forse un diario di viaggio, quasi 200 pagine in cui Patrizio Fariselli, protagonista di una delle più importanti formazioni della nostra storia musicale, rievoca, racconta, testimonia. C'è un po' di tutto: l'infanzia segnata dall'organo di Brian Auger, gli esordi faticosi, il primo disco, il successo, un concerto a Cuba, un altro in Sardegna, John Cage, la passione per i cani, Parco Lambro. Ironico, intelligente ed acuto, un libro che si legge tutto d'un fiato, magari accompagnandolo con le note dell'ultimo cd firmato da Fariselli, “Notturni”, pubblicato anch'esso da Auditorium.
Guido Siliotto

Illàchime Quartet, “I'm Normal, My Heart Still Works”, Fratto9 Under the sky/Lizard
Eccolo finalmente l'atteso nuovo album firmato Illàchime Quartet. L'ensemble napoletano, dopo un ottimo esordio, aveva fatto perdere le proprie tracce, salvo tornare in una recente compilation della francese Bip-Hop, preludio a questo “I'm Normal, My Heart Still Works”, licenziato dalle ottime Fratto9 e Lizard. Un disco che, già per gli ospiti, è un piccolo evento: Mark Stewart (Pop Group), Graham Lewis (Wire), il compositore d'avanguardia Rhys Chatham e il jazzista Salvatore Bonafede. Il gruppo fondato da Fabrizio Elvetico e Gianluca Paladino è al meglio, in quattro anni ha ben focalizzato le idee e stupisce ancora: resta sempre una caratteristica predominante il saper coniugare le più varie ispirazioni, tra rock, classica ed elettronica, con campionamenti di musica popolare e jazz. Tentare, grazie anche ai superospiti, la strada della forma-canzone è però un'altra scelta che viene premiata dalla bontà del risultato. Affascina il contrasto tra le ritmiche e il placido suono del pianoforte, e poi l'uso dei rumori dell'ambiente circostante e detriti digitali, mentre la composizione non imbriglia mai l'improvvisazione. Un grande disco.
Guido Siliotto

Les Claypool, "Of Fungi And Foe", Prawn Song
Ci sono artisti che non ce la fai a contenerli: sfuggono, sgusciano, e quando pensi di averli acchiappati, sono già lontani. Les Claypool è tra questi. Scordati i fasti dei Primus, messe nel cassetto le medaglie, il bassista/cantante è tornato qualche tempo fa con un album, “Of Whales and Woe”, del quale esce ora l'atteso seguito. Atteso, sì, per capire da che parti ci può condurre, stavolta, il funambolico geniaccio. E fin dalle prime note di questa nuova raccolta, "Of Fungi And Foe", si capisce che è lo spirito zappiano a farla da padrone, in un frullato di stili da capogiro. Ogni canzone ti porta di qua e di là, il nostro ha tutta l'aria di divertirsi un mondo - e noi, ovviamente, con lui – al solito guidato da una perizia tecnica mostruosa, ma mai esibita e sempre funzionale. I suoni passano nel tritatutto di Les, gli stili si mescolano, nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto continuamente si trasforma. Molti gli ospiti, tra i quali spicca Eugene Hütz, vocalist dei Gogol Bordello, con un cameo nella vigorosa "Bite Out Of Life". Un disco che è la assoluta conferma di una solidissima vitalità creativa.
Guido Siliotto

lunedì 6 aprile 2009

H. Barker / Y. Taylor, “Musica di plastica. La ricerca dell'autenticità nella musica pop”, ISBN, pp. 203, € 29
Ha senso parlare di “autenticità nella musica pop”? Ebbene sì, perché quando ascoltiamo la musica che più ci piace, spesso finiamo per chiederci se quel tale musicista “ci è o ci fa”. Ecco, a questa domanda cercano di rispondere Hugh Barker e Yuval Taylor con “Musica di plastica”, un corposo saggio che analizza la storia della musica pop per trovare esempi di onestà e integrità, attraverso alcuni casi emblematici, nel bene e nel male, tra i quali spiccano: Elvis Presley; la morte di Kurt Cobain, che non sopportava di tradire se stesso e il pubblico; le titubanze di Donna Summer, regina della disco, genere inautentico per eccellenza; la parabola dei KLF; la vicenda di Leadbelly, eroe del folk; Johnny Rotten, che smette gli abiti punk e ridiventa Lydon. Un testo ricco di spunti di grande interesse, con risposte a volte inaspettate. Della serie: non è tutto oro ciò che luccica.
Guido Siliotto

Lotus Plaza, "The Floodlight Collective", Kranky
Dopo Bradford Cox, che l'anno scorso ci ha provato col progetto Atlas Sound, anche Lockett Pundt lascia per un attimo i Deerhunter e, con lo pseudonimo Lotus Plaza, pubblica "The Floodlight Collective". Non si discosta molto dalle atmosfere tipiche del gruppo di provenienza, il buon Lockett, neppure con questa prova solista. Semmai, nel proseguire in tale ricerca, enfatizza certi aspetti, e lo fa in maniera molto personale, assecondando le proprie prerogative. I punti di riferimento per questo disco sono molteplici, a cominciare da una malcelata passione per gli anni sessanta e, soprattutto, per un artista come Phil Spector: facile ritrovare, qui, echi di quel suo celebre muro di suono. Ma la musica targata Lotus Plaza resta anche fedele ai numi ispiratori di casa 4AD, quella che aveva nei celeberrimi Cocteau Twins la punta di diamante di un magnifico catalogo, per finire sulle placide orme altresì di tanti i gruppi e sottogruppi del movimento shoegaze, tanto di moda oggi. Una manciata di brani assai godibili e orgogliosamente nostalgici per un album che è comunque qualcosa di più di un semplice diversivo.
Guido Siliotto

The Incredulous Eyes Project, “ The Incredulous Eyes Project”, Autoprodotto
Gran bel gruppo i Bebe Rebozo, dall'indole noise e assai creativi. Reduci da quell'esperienza, Danilo Di Nicola (voce e chitarra) e Claudio Di Nicola (batteria e percussioni) decidono di intraprendere una strada nettamente differente. Dall'incontro con Giustino Di Gregorio, musicista elettronico che in passato ha pubblicato un cd nientemeno che per la Tzadik, prestigiosa etichetta di John Zorn, nasce questo The Incredulous Eyes Project, che sarà pure la sintesi delle rispettive esperienze, ma che tuttavia non suona affatto come uno se lo aspetterebbe, date le premesse. Il trio, infatti, lungi dal voler insistere sulla via della sperimentazione, si muove al contrario su orizzonti sonori assai rassicuranti. Il taglio è rock in senso tradizionale, il piglio è pacato, la forma è rispettata e le melodie ci sono, eccome. Il disco, in fin dei conti, è semplicemente una raccolta di belle canzoni, valorizzate dalla cura degli arrangiamenti, puliti e raffinati, e dalla buona qualità compositiva. Certo, chi si aspettava un diverso approccio alla materia, anche sulla scorta delle prove precedenti, potrà restare deluso, ma chi si accosta al cd con fiducia, troverà buona musica per i propri padiglioni auricolari.
Guido Siliotto

venerdì 3 aprile 2009

Claudio Sessa, “Le età del jazz. I contemporanei”, Il Saggiatore, pp. 252, € 23
Ha prima di tutto un merito il libro di Claudio Sessa, e qualsiasi jazzofilo dovrà per forza essere d'accordo: è uno di quei rari lavori che incentra la propria attenzione sul jazz contemporaneo, mentre di solito gli studiosi si affannano a ripercorrerne la storia meno recente, per lo più con taglio biografico. L'obiettivo era quello di colmare questo vuoto e ciò lo rende già di per sé un compendio indispensabile. In più, l'autore, tra i più apprezzati critici del settore, lo fa affrontando l'argomento senza perdere di vista la necessità di analizzare i rapporti tra America ed Europa. Davvero ampia la mole dei dischi affrontati pagina dopo pagina, con qualche spunto particolarmente intrigante: il panorama italiano, l'incontro con l'elettronica e l'ipotesi di un jazz postmoderno.
Guido Siliotto
Julie's Haircut, “Our Secret Ceremony”, A Silent Place
Da tempo Julie's Haircut è uno dei nomi più in vista del panorama indie italiano. I vecchi dischi della band, col loro sapore pop venato di sixties, hanno fatto proseliti e lanciato la band come una delle più rappresentative di quel filone che, guardando al passato, sa trovare nuovi spunti anche per il presente. Da qualche tempo, però, il combo ha deciso di cambiare traiettoria. Le prime avvisaglie si sono concretizzate in uno spiccato interesse per la psichedelia (c'era Sonic Boom su “After dark, my sweet”) e per il kraut-rock, come confermò la soddisfacente collaborazione con Damo Suzuki. In altre parole, i ragazzi hanno deciso di sporcarsi le mani e ampliare ancora di più i propri orizzonti. Il passaggio da Homesleep, l'etichetta che li adottò dopo Gamma Pop, alla più sperimentale A Silent Place è il perfetto corollario di questa scelta. “Our Secret Ceremony” è un disco ambizioso: anzi tutto per la mole, un doppio cd con 15 canzoni, alcune molto lunghe, diviso in due parti, “Sermons” e “Liturgy”. L'intro è base di elettronica povera, poi si procede con tante idee buone, furti e improvvisazione organizzata. Eccitante. Il fatto che non tutto sia a fuoco è tutt'altro che un demerito, bensì il segno che questa è una band col coraggio di osare.
Guido Siliotto
Kelli Ali, “Rocking Horse”, One Little Indian
Chi ricorda gli Sneaker Pimps, quelli del primo album del '96, “Becoming X”, pietra miliare del trip-hop britannico? La voce, su quel disco, appartiene a Kelli Dayton, la quale, abbandonata la vecchia band, ha deciso di intraprendere la carriera solista. Dopo due dischi in cui esplorava il pop con un taglio dapprima sognante, poi più grintoso, eccola con un album completamente diverso, che ce la consegna con la solita voce soave, ma alle prese con una forma canzone mutuata dal folk. Sembra un disco d'altri tempi questo “Rocking Horse”, fin dalla copertina. Lo si potrebbe collocare negli anni settanta, quel filone che vedeva in Inghilterra molte voci femminili cimentarsi con delicati arpeggi di chitarra, qualche campanellino, uno xilofono e opportune orchestrazioni. Chi ha seguito i percorsi di Kelli potrebbe restarne sconvolto, ma per gli altri è semplicemente un bel disco. Difficile dire se si tratta di una abile mossa di riciclaggio o, al contrario, di una sincera folgorazione. Tutto sommato, poco importa. Le tredici tracce sono infatti convincenti, si lasciano ascoltare con piacere, sono ben arrangiate e la voce di Kelli non merita altro che apprezzamenti.
Guido Siliotto

giovedì 2 aprile 2009

Joe Harvard, “The Velvet Underground & Nico”, No Reply, pp. 192, € 12
“Non sono un critico. Faccio il musicista e questo non è un tentativo di spiegare i Velvet Underground (...). Il mio intento in questo libro è quello di condividere ciò che ho trovato di rilevante nell'album d'esordio del gruppo”. Molto semplicemente, Joe Harvard indaga, da una prospettiva molto personale, ma con ampia documentazione e stralci di interviste ai protagonisti, su quello che è considerato, a ragione, uno dei più grandi album di sempre, sia per la bellezza del contenuto, sia per l'incredibile impatto sul rock a seguire. Una panoramica sull'ambiente della Factory, sui giorni delle registrazioni e sulla tiepida accoglienza riservata a un Lp che cambierà la storia. Il volume fa parte della bella collana “Tracks”, che ha già visto raccontare altri album epocali come “In Utero”, “Let It Be” e “The Piper At The Gates Of Dawn”.
Guido Siliotto
Tipsy, “Buzzz”, Ipecac
Cosa succede se mettiamo insieme due musicisti che siano anche appassionati collezionisti di dischi, preferibilmente cosette easy listening degli anni sessanta, orchestre kitsch, colonne sonore improbabili per corse in riva al mare al tramonto? Facile prevedere che, prima o poi, i due si mettano in testa di realizzare una creatura che si avvicini quanto più possibile alle loro fantasie. Nasce proprio così il progetto Tipsy, dall'incontro tra Dave J. Gardner, fanatico di musica lounge e industrial (mah!) e Tim Digulla, malato di psichedelia. Un esordio nel '97 ("Trip Tease"), seguito da "Uh Oh" quattro anni più tardi, sono state le naturali declinazioni di questa mania. Finchè non arriva il recentissimo “Buzzz”, il quale chiarisce che i due non scherzano. Tutt'altro: il viaggio è da macchina del tempo, ma tenendosi stretto il proprio i-pod. Ne viene fuori una miscela che mette insieme vecchio e nuovo in modo mirabile, un taglia e cuci tra fiati e campionamenti, strumenti rock, jazz ed elettronica. Un disco variegato da far girare la testa, eccitante in molti punti, vagamente stucchevole in altri, ma soprattutto vivace e divertente almeno quanto la bella copertina del giapponese Keroman.
Guido Siliotto
Samuel Katarro, “Beach Party”, Angle
Abbiamo sempre avuto un debole per Samuel Katarro, inutile negarlo, fin dagli esordi, quando si destreggiava con la sua chitarra blues e la sua ugola scassata solo contro tutti. Del resto, come non apprezzare uno che ha deciso di dar voce ai propri fantasmi senza porsi il problema di fare i conti con il resto del mondo, così “fuori”, eppure capace di vincere un Rock Contest. Con uno pseudonimo talmente assurdo che sembra uno scherzo, ma che calza a pennello ad un progetto sempre sull'orlo del baratro di una risata, il giovane Alberto Mariotti da Pistoia arriva finalmente all'esordio, cambiando però un po' le carte in tavola. Chi se l'aspettava ancora voce-chitarra avrà la sorpresa di arrangiamenti più ricchi, ma non resterà deluso: blues, blues e ancora blues. Scarno, viscerale, disperato. Ma c'è di più: “Beach Party” (titolo che omaggia la band dei fratelli Wilson, autentica ossessione di Alberto) lascia aperte le porte a una certa new-wave che si chiama Gun Club e primo Nick Cave oltre, ovviamente, ai Pere Ubu di quel David Thomas che resta il vero padre spirituale del musicista toscano. Guido Siliotto

Charles Burns, “Big Baby”, Coconino Press, pp. 96, € 15
Il suo nome resta indissolubilmente legato alla musica, per aver lavorato alla fanzine e a molte copertine di dischi della storica etichetta grunge Sub Pop. Charles Burns è uno dei grandi maestri del fumetto americano, un artista che in quasi trent'anni di carriera si è imposto col suo stile inconfondibile, caratterizzato da un forte contrasto fra bianco e nero e figlio della cultura pop, con un immaginario che spazia tra horror, fantascienza e letteratura pulp. Dopo aver pubblicato in Italia “Black Hole”, Coconino Press propone “Big Baby”, ovvero le vicende di Tony Delmonte, tipico adolescente timido dalla vita apparentemente normale, che si ritrova invischiato in una crudele realtà che sembra un incubo e viceversa. Con luciferina ironia, Burns ci ricorda quanto sia difficile essere un teen ager.
Guido Siliotto
The Shipwreck Bag Show, “Il tempo... tra le nostre mani, scoppiaaaaaaaaa!”, Wallace / Long Song / Phonometak
Quando, tempo fa, uscì il mini-cd firmato The Shipwreck Bag Show, non ci furono dubbi che si trattasse di una delle migliori uscite di Wallace Mail Series. Un disco che metteva insieme le anime inquiete di Xabier Iriondo e Roberto Bertacchini, il primo creativissimo agitatore dell'underground italico, perso tra mille progetti, e il secondo anima ritmica di Starfuckers / Sinistri. Un binomio dal quale potevano venir fuori solo meraviglie. E, infatti, rieccoli con questo “Il tempo... tra le nostre mani, scoppiaaaaaaaaa!”, finalmente album sulla lunga distanza e, finalmente, prova in cui il duo si confronta con la forma-canzone. Naturalmente, con una prospettiva tutta personale. Iriondo, che già con l'altro progetto Polvere s'è messo in testa di indagare sulle radici del blues, qui affronta la sfida da una nuova prospettiva. Sebbene sia sempre musica evocativa, stavolta il ritmo è protagonista. Del resto, non poteva essere altrimenti, giacché gli strumenti obsoleti di Xabier e le sue rifiniture elettroniche sono qui assecondate dall'inconfondibile incedere zoppicante dei tamburi percossi dal Bertacchini. Un'idea intrigante e un'intesa perfetta, un disco a fuoco e bellissimo.
Guido Siliotto