Grande disco il secondo lavoro firmato Il Teatro degli Orrori, "A sangue freddo", senz'altro una delle migliori uscite del 2009. Una raffica di ottime canzoni, capaci come raramente accade di coniugare la veemenza del noise-rock con la lingua italiana in maniera convincente, anche grazie alla qualità dei testi di Pierpaolo Capovilla, al quale ho rivolto le domande che seguono.
Quando ti intervistai ai tempi degli One Dimensional Man mi facesti capire che cantare in inglese era per te una cosa naturale. Cosa ti ha spinto a passare all'italiano e quali difficoltà hai trovato?
Ero stanco di non essere compreso. L'inglese è sicuramente la lingua più adatta per fare questo tipo di musica, ma non è certo l'unica. Cantare in italiano è più difficile, ma molto più interessante: chi ascolta, ti capisce: il messaggio arriva dritto al cuore. E' tutta un'altra storia!
All'epoca mi dicesti, con Oscar Wilde, che "copiare da molti è ricerca". Scrivi ancora citando qua e là?
Ogni citazione letteraria presente nelle mie canzoni è ben meditata, ed ha sempre un senso molto forte: vuole essere metafora ed allegoria, senso ulteriore, evocazione. Non è un citare a caso, ma è parte integrante della narrazione. La ricontestualizzazione, per esempio, della poesia di Majakovskij, mi permette di resuscitarla da quella prigione che è la parola scritta, per farla poi precipitare nella contemporaneità.
In particolare, il nome della band deriva da Artaud. Cosa hai fatto tuo della sua arte?
Proprio questo è il punto. Artaud mi ha insegnato che la scena, il palcoscenico, per essere autentici, devono diventare più veri del vero: un bel paradosso, ma la rappresentazione, per essere tale, deve non soltanto parlare della vita, ma deve essere la vita stessa. Quando salgo su un palco per un concerto, sono finalmente vivo. E' quando torno a casa, al mio lavoro, in ufficio o in fabbrica, davanti alla tivu: ecco, crepo lentamente, consumato da una non-vita sempre uguale a se stessa, nella quale non riesco a scorgere alcun obiettivo.
Da un punto di vista musicale, ho apprezzato molto sull'ultimo cd la scelta di sperimentare altre strade: bello il brano introduttivo, meno riuscito - secondo me - il tentativo di guardare all'elettronica. Ad ogni modo, sono due strade che pensate di percorrere con maggiore convinzione in futuro?
Credo di sì, ma è appena uscito il nuovo album e adesso l'unica mia preoccupazione sono i live: la tournée sarà interminabile.
Fin dai tempi degli ODM, hai sempre parlato di politica. Ora, con l'utilizzo dell'italiano, la cosa diventa ancora più esplicita. Non sono però i musicisti che hanno voglia di confrontarsi con la situazione che stiamo vivendo. Che ne pensi?
Per me fare musica è politica tout-court. La musica popolare contribuisce alla creazione dell'immaginario collettivo. Le nostre canzoni inducono a riflettere, a porsi delle domande, e spero inducano anche un desiderio di emancipazione, di giustizia, di equità.
Ero stanco di non essere compreso. L'inglese è sicuramente la lingua più adatta per fare questo tipo di musica, ma non è certo l'unica. Cantare in italiano è più difficile, ma molto più interessante: chi ascolta, ti capisce: il messaggio arriva dritto al cuore. E' tutta un'altra storia!
All'epoca mi dicesti, con Oscar Wilde, che "copiare da molti è ricerca". Scrivi ancora citando qua e là?
Ogni citazione letteraria presente nelle mie canzoni è ben meditata, ed ha sempre un senso molto forte: vuole essere metafora ed allegoria, senso ulteriore, evocazione. Non è un citare a caso, ma è parte integrante della narrazione. La ricontestualizzazione, per esempio, della poesia di Majakovskij, mi permette di resuscitarla da quella prigione che è la parola scritta, per farla poi precipitare nella contemporaneità.
In particolare, il nome della band deriva da Artaud. Cosa hai fatto tuo della sua arte?
Proprio questo è il punto. Artaud mi ha insegnato che la scena, il palcoscenico, per essere autentici, devono diventare più veri del vero: un bel paradosso, ma la rappresentazione, per essere tale, deve non soltanto parlare della vita, ma deve essere la vita stessa. Quando salgo su un palco per un concerto, sono finalmente vivo. E' quando torno a casa, al mio lavoro, in ufficio o in fabbrica, davanti alla tivu: ecco, crepo lentamente, consumato da una non-vita sempre uguale a se stessa, nella quale non riesco a scorgere alcun obiettivo.
Da un punto di vista musicale, ho apprezzato molto sull'ultimo cd la scelta di sperimentare altre strade: bello il brano introduttivo, meno riuscito - secondo me - il tentativo di guardare all'elettronica. Ad ogni modo, sono due strade che pensate di percorrere con maggiore convinzione in futuro?
Credo di sì, ma è appena uscito il nuovo album e adesso l'unica mia preoccupazione sono i live: la tournée sarà interminabile.
Fin dai tempi degli ODM, hai sempre parlato di politica. Ora, con l'utilizzo dell'italiano, la cosa diventa ancora più esplicita. Non sono però i musicisti che hanno voglia di confrontarsi con la situazione che stiamo vivendo. Che ne pensi?
Per me fare musica è politica tout-court. La musica popolare contribuisce alla creazione dell'immaginario collettivo. Le nostre canzoni inducono a riflettere, a porsi delle domande, e spero inducano anche un desiderio di emancipazione, di giustizia, di equità.
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