Joe Harvard, “The Velvet Underground & Nico”, No Reply, pp. 192, € 12
“Non sono un critico. Faccio il musicista e questo non è un tentativo di spiegare i Velvet Underground (...). Il mio intento in questo libro è quello di condividere ciò che ho trovato di rilevante nell'album d'esordio del gruppo”. Molto semplicemente, Joe Harvard indaga, da una prospettiva molto personale, ma con ampia documentazione e stralci di interviste ai protagonisti, su quello che è considerato, a ragione, uno dei più grandi album di sempre, sia per la bellezza del contenuto, sia per l'incredibile impatto sul rock a seguire. Una panoramica sull'ambiente della Factory, sui giorni delle registrazioni e sulla tiepida accoglienza riservata a un Lp che cambierà la storia. Il volume fa parte della bella collana “Tracks”, che ha già visto raccontare altri album epocali come “In Utero”, “Let It Be” e “The Piper At The Gates Of Dawn”.
Guido Siliotto
Tipsy, “Buzzz”, Ipecac
Cosa succede se mettiamo insieme due musicisti che siano anche appassionati collezionisti di dischi, preferibilmente cosette easy listening degli anni sessanta, orchestre kitsch, colonne sonore improbabili per corse in riva al mare al tramonto? Facile prevedere che, prima o poi, i due si mettano in testa di realizzare una creatura che si avvicini quanto più possibile alle loro fantasie. Nasce proprio così il progetto Tipsy, dall'incontro tra Dave J. Gardner, fanatico di musica lounge e industrial (mah!) e Tim Digulla, malato di psichedelia. Un esordio nel '97 ("Trip Tease"), seguito da "Uh Oh" quattro anni più tardi, sono state le naturali declinazioni di questa mania. Finchè non arriva il recentissimo “Buzzz”, il quale chiarisce che i due non scherzano. Tutt'altro: il viaggio è da macchina del tempo, ma tenendosi stretto il proprio i-pod. Ne viene fuori una miscela che mette insieme vecchio e nuovo in modo mirabile, un taglia e cuci tra fiati e campionamenti, strumenti rock, jazz ed elettronica. Un disco variegato da far girare la testa, eccitante in molti punti, vagamente stucchevole in altri, ma soprattutto vivace e divertente almeno quanto la bella copertina del giapponese Keroman.
Guido Siliotto
Samuel Katarro, “Beach Party”, Angle
Abbiamo sempre avuto un debole per Samuel Katarro, inutile negarlo, fin dagli esordi, quando si destreggiava con la sua chitarra blues e la sua ugola scassata solo contro tutti. Del resto, come non apprezzare uno che ha deciso di dar voce ai propri fantasmi senza porsi il problema di fare i conti con il resto del mondo, così “fuori”, eppure capace di vincere un Rock Contest. Con uno pseudonimo talmente assurdo che sembra uno scherzo, ma che calza a pennello ad un progetto sempre sull'orlo del baratro di una risata, il giovane Alberto Mariotti da Pistoia arriva finalmente all'esordio, cambiando però un po' le carte in tavola. Chi se l'aspettava ancora voce-chitarra avrà la sorpresa di arrangiamenti più ricchi, ma non resterà deluso: blues, blues e ancora blues. Scarno, viscerale, disperato. Ma c'è di più: “Beach Party” (titolo che omaggia la band dei fratelli Wilson, autentica ossessione di Alberto) lascia aperte le porte a una certa new-wave che si chiama Gun Club e primo Nick Cave oltre, ovviamente, ai Pere Ubu di quel David Thomas che resta il vero padre spirituale del musicista toscano. Guido Siliotto
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